domenica 22 luglio 2007

trafalgar

"Venti leggeri,
andiamo
verso il nemico"
annotò
sul libro
di bordo
un ufficiale
delle navi
di Nelson.
Quanta
formidabile
poesia
si nasconde
nella furia
della vita

in cima

Siamo partiti alle cinque e mezza del mattino. Un'alba fresca giusta, fantastica se non fosse stata il preannuncio di un seguito dal caldo estenuante.Ma per un giorno lo abbiamo evitato.Nel chiuso dell'aria condizionata dell'auto ci siamo traghettati in due ore scarse ai 1200 metri del Passo della Presolana.Stessa aria fresca, l'incontro con gli altri e su nel bosco. Ci eravamo dati quattro ore per raggiungere la vetta della Presolana, 2521 metri di dolomiti in piene prealpi bergamasche. Bella, alta e grigio pulito, nella sua corona verde di prati e abeti. Per tante volte vista dal basso o solleticata alle pendici. Il buon ritmo ci porta sudati ma nei tempi all'attacco di una lunga arrampicata di livello 2+, con braccia e piedi da puntare saldi per un'ora e mezza senza aiuti di passaggi attrezzati ai quali praticamente e psicologicamente chiedere sicurezza,almeno da parte mia. A metà pende un metro di catena, lì imbrunita e solitaria a far da pendolo per scavalcare un passaggio. E basta. Su in silenzio, con qua e là i richiami per consigliare un appiglio o far attenzione al ciottolare giù dei sassi. Il sole è magnifico, tagliente ma non cattivo come quello che fa da velo umido in città. In un respiro della salita mi ritrovo ad appoggiare la tempia alla roccia fredda e a pensare: ma io laggiù non ci vorrei più tornare. Mi capita non tanto di rado da quando, tre anni fa, ho ripreso a frequentare le montagne. Non so, ho imparato a non inseguire troppo le immaginazioni se non le vedo sulla via della realizzazione. Però è come se si stesse preparando in me un dopo invisibile eppure possibile nel quale queste sensazioni, ora strappate con i denti a piccoli pezzi,potranno distendersi con calma,a lungo, in qualche luogo.Il vento teso sulle magliette bagnate ci dice che la cresta arriva. Guardiamo di là di quel mezzo metro su cui ora camminiamo circospetti, spigoli noi stessi di due mondi che lassù si incontrano, con le loro case giù lontanissime, le loro strade
e le folate che si posano sulla faccia da lati diversi.Uno slargo di qualche metro ci permette di aprire gli zaini attorno alla grande croce di ferro e vicino ai ricordi sparsi nei decenni lasciati lì da tanti.Non mi tolgo il caschetto rosso di Massimo che, dopo mille montagne, ora sta in Bangladesh,con i poveri di una terra di pianura e acqua. Abbastanza presto imbocchiamo la via al contrario, avendo chiaro che scenderla sarà più complicato che averla salita. Più occhi,meno certezza per dove infilare gli scarponi, più stanchezza. Il resto del cibo e delle bevande lo consumiamo ai margini del sentiero, in una grotta dove avevamo depositato il superfluo per essere leggeri e non impediti. Mi butto a valanga, sciando con le suole di vibram nei ghiaioni che precipitano verso il basso. Grazie a Chiara, Adriano, Anna e ai giovani scoiattoli Riccardo e Sara.