Siamo partiti alle cinque e mezza del mattino. Un'alba fresca giusta, fantastica se non fosse stata il preannuncio di un seguito dal caldo estenuante.Ma per un giorno lo abbiamo evitato.Nel chiuso dell'aria condizionata dell'auto ci siamo traghettati in due ore scarse ai 1200 metri del Passo della Presolana.Stessa aria fresca, l'incontro con gli altri e su nel bosco. Ci eravamo dati quattro ore per raggiungere la vetta della Presolana, 2521 metri di dolomiti in piene prealpi bergamasche. Bella, alta e grigio pulito, nella sua corona verde di prati e abeti. Per tante volte vista dal basso o solleticata alle pendici. Il buon ritmo ci porta sudati ma nei tempi all'attacco di una lunga arrampicata di livello 2+, con braccia e piedi da puntare saldi per un'ora e mezza senza aiuti di passaggi attrezzati ai quali praticamente e psicologicamente chiedere sicurezza,almeno da parte mia. A metà pende un metro di catena, lì imbrunita e solitaria a far da pendolo per scavalcare un passaggio. E basta. Su in silenzio, con qua e là i richiami per consigliare un appiglio o far attenzione al ciottolare giù dei sassi. Il sole è magnifico, tagliente ma non cattivo come quello che fa da velo umido in città. In un respiro della salita mi ritrovo ad appoggiare la tempia alla roccia fredda e a pensare: ma io laggiù non ci vorrei più tornare. Mi capita non tanto di rado da quando, tre anni fa, ho ripreso a frequentare le montagne. Non so, ho imparato a non inseguire troppo le immaginazioni se non le vedo sulla via della realizzazione. Però è come se si stesse preparando in me un dopo invisibile eppure possibile nel quale queste sensazioni, ora strappate con i denti a piccoli pezzi,potranno distendersi con calma,a lungo, in qualche luogo.Il vento teso sulle magliette bagnate ci dice che la cresta arriva. Guardiamo di là di quel mezzo metro su cui ora camminiamo circospetti, spigoli noi stessi di due mondi che lassù si incontrano, con le loro case giù lontanissime, le loro strade
e le folate che si posano sulla faccia da lati diversi.Uno slargo di qualche metro ci permette di aprire gli zaini attorno alla grande croce di ferro e vicino ai ricordi sparsi nei decenni lasciati lì da tanti.Non mi tolgo il caschetto rosso di Massimo che, dopo mille montagne, ora sta in Bangladesh,con i poveri di una terra di pianura e acqua. Abbastanza presto imbocchiamo la via al contrario, avendo chiaro che scenderla sarà più complicato che averla salita. Più occhi,meno certezza per dove infilare gli scarponi, più stanchezza. Il resto del cibo e delle bevande lo consumiamo ai margini del sentiero, in una grotta dove avevamo depositato il superfluo per essere leggeri e non impediti. Mi butto a valanga, sciando con le suole di vibram nei ghiaioni che precipitano verso il basso. Grazie a Chiara, Adriano, Anna e ai giovani scoiattoli Riccardo e Sara.
domenica 22 luglio 2007
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2 commenti:
C’ero anch’io.
Era da almeno vent’anni che non lasciavo più le unghie sulla roccia… adrenalina!!!
Grazie a tutti.
Arrivederci alla prossima avventura.
Grazie per avermi portato con te in cima ad una vetta che ancora mancava al mio elenco. Grazie per aver mescolato il tuo sudore al mio sudore in quel caschetto rosso. Grazie per le foto e per il tuo racconto, hanno risvegliato dentro di me le antiche emozioni di tante arrampicate. Stai diventando un poeta d'alta quota!!!
Ti aspetto in Bangladesh. massimo
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