domenica 28 gennaio 2007

il ricordo non è Memoria

In questo sabato 27 gennaio di compere e di passeggio, Giorno della Memoria, c'è una cinquantina di persone disposta ad ascoltare storie. Fiabe vere nate tra noi più di 60 anni fa nell'inferno che attraversava l'Europa. Nissin era un ragazzo di tredici anni in una famiglia ebrea di Milano. I bombardamenti convinsero il papà artigiano a cercare per loro quattro un luogo in cui rifugiarsi, qualche decina di chilometri verso la campagna. D'improvviso il 9 settembre si scoprirono candidati alla deportazione. Non un perchè che comprendessero, ma niente più scuola e amici, e la sensazione che gli sguardi attorno potesserlo condurli su quei vagoni in partenza per il Brennero. Nell'aria domestica che si era fatta gelida seppur d'estate, decisero di salire su un treno per la Svizzera, che era lì dietro l'angolo e ora assomigliava a un nuovo paradiso. Vi sbarcarono sollevati, con due cose, e andarono dai militari. Qualche domanda e poi via, tornate da dove venite, non c'è motivo d'accoglienza. Via. La sera erano ancora con gli occhi spalancati al buio nella casina fuori Milano. Papà Contente decise di giocare una mano estrema e senza ritorno. Andarono dal segretario comunale del paese, un buon uomo si diceva, e follemente, si rivelarono. Il dottor Bassi non era solo un buon uomo, era un uomo buono. Si alzò e andò di là per un minuto, lasciando sulla scrivania quattro carte di identità vuote. I Contente si guardarono e di getto le compilarono. Arrivarono misteriosamente anche i timbri di validazione. Ora erano sfollati siciliani oltre la linea Gotica, ma non potevano tornare tra i vicini che li conoscevano e li avrebbero subito smascherati. Il dottor Bassi era qualcosa in più che buono, era coraggioso. Lo sapeva, quello che stava facendo poteva far condannare alla deportazione tutti, anche quella sua bimbetta che gli era nata da un anno e che, adesso, il 27 gennaio 2007, ha accompagnato qui Nissin a narrare la sua storia, la loro storia. Il segretario aveva giurisdizione pure sul comune limitrofo e non si fermò. Portò i Contente nella scuola chiusa e li alloggiò in uno stanzone che divenne, per anni che sembrarono secoli, la loro casa. Come facevano a campare? avrebbero potuto chiedersi lì in giro. Il padre di Nissin scappava di tanto in tanto a Milano per vendere in nero, con il contagocce, i gioelli che avevano salvato. Però il grandicello Nissin doveva mostrar di lavorare, e allora rimaneva chiuso sei giorni della settimana nella stanza, invisibile, come se fosse chissà dove a guadagnar la pagnotta. Tutto calcolato, niente mosse false per nessuno, neanche per il dottor Bassi che inventava capatine di ispezione alla scuola per confortarli, portargli qualcosa, dirgli di resistere. Ora il suo nome è tra i Giusti di Israele e le famiglie Contente e Bassi si sono legate con un filo indistruttibile. Perchè quello che tutti credevano fosse un uomo buono, magari coraggioso, in realtà fu un mite, assoluto eroe.
Accanto, adesso, racconta Giancarlo. Un giorno, era bambino, vide il padre uscire con delle persone dalla casa di Saronno, e non tornò più. Uno scampato scorse Pietro su un mucchio di cadaveri, a Gusen. Divenne sapone, fumo, mangime per animali o concime per le fattorie. Non è mai morto, dice Giancarlo, perche non riuscirono mai a farlo iscrivere al partito fascista, lui, ferroviere, pressochè obbligato. Il suo numero tatuato dagli aguzzini, Giancarlo lo ripete sempre a memoria. Davvero , come loro volevano, è rimasto indelebile, a rendere invincibile il vinto, a sconfiggere per sempre i suoi vincitori.
Tocca a Martina e Veronica che hanno messo in un video, tra le mura di casa, il nonno sulla sua quotidiana poltrona a sostenerlo. Ricorda, il vecchio Pompeo, di essere stato un soldato di vent'anni caricato su un treno per conquistare Grecia e Albania. Aveva un fucile a tracolla che non sapeva usare e non lo usò fino a quel settembre, quando li caricarono su un altro treno che ci mise un mese ad approdare in Germania. Campo di concentramento per militari italiani, a spaccarsi la schiena nel fondere il ferro per il disperato sogno hitleriano. Lo liberarono gli americani e lui, afferrata la cioccolata, saltò su un camion fino a casa. Ci arrivò unto nero in faccia, e per africano lo presero i compaesani, che videro risorgere dall'abisso quel ragazzo dei loro. Guerra di chi? ancor oggi si domanda Pompeo, che guarda nelle sue nipoti la determinazione e la tenerezza dei suoi anni pericolosi.

Il ricordo è diverso dalla memoria. Ricordare, nella parola, è fare appello al cuore, sentire l'istante bruciante ed effimero dell'emozione, prima che fatalmente si spenga. La memoria prende il testimone della passione e lo consegna alla ragione e alla coscienza, lo fa diventare stabile in profondità. Fare memoria dunque non è concedere al passato, per una qualche generosità, l'elemosina di non dimenticare. Al contrario la memoria è la radice indispensabile per conoscere chi siamo, per sapere che cosa di forte o di tremendo ci ha fatti così come ci sentiamo. Lo avevano capito duemilacinquecento anni fa i Greci che misero Mnemosine, La Dea Memoria, a proteggere ciò che di più bello l'uomo aveva creato: le Muse e le loro arti.
E anche questo è Memoria.

venerdì 26 gennaio 2007

di niente

Mi piace
addormentarmi
quando capita
curvato e
arreso
in luoghi
dove alcuni
nemmeno
siederebbero.
E in certi giorni
vivere di niente.
Come pastore
che attende l'alba
o aria di passaggio

lunedì 22 gennaio 2007

piccolo racconto: "Le carezze di Sanja"

Sanja era lì da un mese. Racchiusa in un bozzolo di letto, al grigio un po' buio sparso dalle quattro pareti.In alto una finestra smilza,come un quadro tra i pochi quadri,vecchie foto appese con l'attaccapanni e una corda per il bucato.
Era stata la guerra, anzi, era la guerra ad aver deciso che l'infanzia di Sanja si fermava lì. Quando il fratello e la nonna l'avevano raccolta dietro la casa, nell'orto dell'insalata ormai intirizzita e dei giochi rimasti,la pensavano addormentata. Così composta nell'abito a puntini gialli e la mano vicino alla fronte. C'era stato un tuono forte subito prima,uno squarcio d'aria. Non proprio nuovo,da due anni ce n'erano.Ma potente,sì, una specie di terremoto di un istante.
Una mina lì vicina, forse mossa da un animale, non l'unica in quei due anni. Aveva trasformato un sasso piccolo e affusolato in un proiettile che radendo il campo e il muretto aveva infine incrociato la tempia di Sanja. Quella poggiata tra i fiori ritardatari e che aveva lasciato le dita rosse ad Aleksa quando l'aveva sollevata dicendo "Che c'è, che c'è?"
Era un mese fa, tra l'autunno e l'inverno, in quel cielo dell'anno frizzante e terso,nostalgia d'estate e avviso di Natale.All'ospedale avevano bisbigliato che la mente di Sanja se n'era andata. Nessun risveglio, nè macchine a ronzare, nè posti letto in più.Brande dappertutto, e andirivieni chiassoso di ordini e lamenti.Torna a casa Sanja, e finchè dura dormi lì.
Aleksa aveva interrotto, per forza come tutti gli altri,l'ultimo anno di scuola superiore,e leggeva,leggeva molto da sempre.Anche adesso,senza i libri della biblioteca,recuperava pezzi di giornale dai camion dei soldati,e vi si sprofondava.Che malattia, diceva il padre. E tra tutte quelle cose che leggeva di viaggi, pittori,scoperte, musica e filosofie, si ricordò Aleksa,che aveva trovato di un bambino curato con le carezze.I genitori, la gente, laggiù in capo al mondo, volevano svegliare il bimbo lisciandolo sulle mani e sul viso, le palpebre e i capelli.Sempre, a turno.
Non aveva mai saputo l'effetto di quella medicina tra pelle e pelle.Chissà.
Portò i parenti da Sanja, e poi i suoi compagni, e quelli di lei, e i loro genitori.Nessuno si oppose,in casa.In silenzio avevano tutti scelto che tra follia e sogno andava bene il sogno.
Anche oggi una nebbiolina appesa tra le piante cadeva sul manubrio di quelli che arrivavano, di vicini sempre più da lontano.
Le prime stelle sulla collina sono come lame di diamanti che resistono all'usura dei giorni e dei tanti cuori infranti.Parlerà ancora,un mattino,la vita all'amore di Sanja,rifiorirà come il suo campo la difficile promessa? Assopita su grandi sentieri di nuvole e mare seguirà orme invisibili,un canto nella notte?
Ognuno chiedeva a sè queste cose sfilando davanti a Sanja e carezzandola leggero, e sembrava pensare "Non è forse come lei, un dopo e un non ancora il nostro quotidiano correre e spezzarci, smarrirci e cercare,irritarci con chi s'ama?"
E' che a poco a poco quelle carezze a migliaia erano riuscite a tenere a distanza la guerra.Erano divenute più importanti dei confini calati simili a falci d'acciaio tra villaggi e famiglie.
Erano la risposta senza voce di Sanja alle ferite senza sangue dell'odio e delle paure.Le mani strette a pugno nel freddo, o calcate nelle tasche, uscivano dalla casa cariche di calore da passare, fiotto nelle vene che trapelava discreto agli sguardi,ai movimenti.
Non stava succedendo niente.Nè al corpo fuscello fanciullo di Sanja, nè attorno a lei.Non si vedeva nulla, un tutto immobile, adagio posato alla fine delle giornate,durante quel pellegrinaggio lento come brace di camino.Dolcezza essenziale di ogni vespero.
Ma sarebbe successo,o era già successo:a lei, che sola reggeva il vento che le spirava dentro;a loro sfiniti dai giorni del male e,donando carezze,scolari d'amore,allievi di quel fruscio sfiorato sulla pelle, rumore povero, quasi simile a un niente.
Erano più di cento adesso quelli che volevano attirare Sanja a se stessi nel volo del ritorno,immobili come pietra, liberi come il maestrale, mentre fuori il vento gonfiava i vestiti di infinito.

martedì 16 gennaio 2007

dita

Una pioggerellina
senza tempo
cade sul manubrio
della bicicletta
tra le mie fragili dita
reduci dal mio
fragile cuore.
Sono felice
d'essere infelice
bada bene oggi
che non è ieri
e nemmeno domani.
Perchè
a me
di me stesso parlo
e solo così
scavando
scoprendo
mi scalda
come uno
sparo di sole

domenica 14 gennaio 2007

parole che non svaniscono

Ho appena finito di leggere "Seppellite il mio cuore a Wounded Knee".
Questo è il luogo dove nel 1890 finì la storia degli indiani d'America.
In 30 anni niente era più riconoscibile. Nello stesso lasso di tempo in un villaggio indiano una uomo nasceva, diventava capace di usare arco e frecce, faceva una famiglia. Attorno a lui valli e torrenti erano immutabili.Forse cambiava qualche tratto di bosco, la neve era un po' più alta, i bisonti ritardavano una settimana.In quei 30 anni accaddero cose impensabili agli occhi dei nativi. Arrivarono veicoli e armi quasi magici, giovani con le stelle al posto delle piume come grado di valore,donne pallide, esili eppure tenaci, con figli dai capelli gialli o rossi.I sentieri dove si cavalcava in silenzio in fila divennero autostrade piene di carri e urla.Se tutto ciò non fosse stata la sembianza stessa della morte si sarebbe potuto dire, per qualche verso, affascinante. Ma i cadaveri dei bambini e le firme ingenue derise su fogli carta straccia dicevano agli indiani che la fine era in marcia.Le pipe inutilmente passate dalle mani dei capi pellerossa a quelle dei capi giacche blu illusero i saggi e i volenterosi. Le riserve erano scampoli di natura buoni per un'intera città dei bianchi e però sufficienti per la caccia e la raccolta non di migliaia, ma di poche decine di indiani.Appare incredibile anche a noi oggi quello che in una manciata d'anni successe senza tregua. Nel frattempo i bianchi erano anche riusciti a iniziare e finire una mattanza tra loro vestiti con giacche diverse...perchè? si chiedevano sulle colline e nelle pianure.Sortilegi senza risposta.Presto fu chiaro agli indiani che ci potevano essere solo due strade da percorrere. Entrambe avevano come destinazione la catastrofe. Alcuni scelsero la prima,accettando una esistenza miserabile a capo chino.Altri la seconda, la lotta fino al suicidio etnico in nome dell'onore mai domo.
Ci sono parole che rimangono dentro di noi indelebili, è come se non avessero epoca. Ogni uomo dovrebbe sentirle pronunciate verso se stesso. Ne riporto alcune.

"Non abbiamo mai fatto male all'uomo bianco.Noi vogliamo essergli amici.I bisonti stanno diminuendo, le antilopi sono poche ormai.Avremo fame e saremo costretti a venire al forte.I vostri giovani uomini non devono sparare su di noi; ogni volta che ci vedono ci sparano addosso, e noi spariamo a loro."
Tonkahaska (Toro Alto)
al generale W.Scott Hancock

"I bianchi cercavano sempre di far vivere gli indiani come loro. Gli indiani non sapevano come farlo e comunque non gli interessava.Se gli indiani avessero cercato di far vivere i bianchi come loro, i bianchi avrebbero opposto resistenza"
Wamditanka (Grande Aquila)

"Quando l'uomo bianco arriva lascia una traccia di sangue dietro a sè. Noi abbiamo due montagne in questo paese, voglio che il Grande Padre non faccia strade attraverso di esse...dalle strade cominciano tutti i nostri problemi.Ho detto queste cose tre volte. Ora sono venuto a dirlo per la quarta volta."
Nuvola Rossa ai
rappresentanti del governo

"Da un inventario fatto dagli ufficiali dopo l'irruzione in un accampamento e il suo incendio totale: 251 tende, 962 abiti di pelle di bisonte, centinaia di stoviglie e utensili, cibarie immagazzinate."
Dopo azioni come queste gli indiani, soprattutto i giovani apprendisti guerrieri (e questa è una costante in tutte le tribù, i capi quasi mai riuscivano a frenarli anche se tentavano),partivano per incursioni contro le diligenze di collegamento, piccoli drappelli in uscita dai forti, fattorie di pionieri, binari e pali del telegrafo, disperdendo e uccidendo il bestiame dei civili e dei militari. E' quello che per mezzo secolo abbiamo visto nei film...

Infine una "chicca": nel 1866 il Congresso americano approva una legge che concede i diritti civili a tutti i nati negli Stati Uniti (unica eccezione gli indiani... i soli ad essere lì da sempre!)

lunedì 8 gennaio 2007

prima ora: toccare con mano

Dopo un bel po' di anni vicino agli studenti guardo con un punto interrogativo ogni nuova ondata di ragazzi (ai quali irrimediabilmente mi affeziono). Come sono davvero? Di che cosa hanno bisogno che non pensino di avere già? Non più di parole: ci si sono abituati e,purtroppo,si sono impermeabilizzati: troppi maestri. Le parole colpiscono nel segno solo se sono accompagnate da un fatto significativo, da una persona che gli adolescenti percepiscono come valida, non fasulla. Seguendo talora con il ragionamento e talaltra istintivamente questa considerazione mi sono reso disponibile a vivere con un gruppo sempre più folto, formato da ragazzi di varie classi, l'esperienza della Casa della Carità. Per tre volte ormai abbiamo trascorso alcuni giorni e notti in questa grande, e per tanti versi fenomenale, "casa" di accoglienza alle porte di Milano. Non faccio retorica se dico che per molti di questi adolescenti si è verificato un interiore salto di qualità. Sedersi a mensa insieme a degli immigrati stranieri è diverso dal pensare qualcosa sugli stranieri. Giocare con i bambini "rom" è un'altra cosa che non dare un giudizio sui "rom". Entrare in un giorno di pioggia nelle loro baracche per accettare un bicchiere di benvenuto non c'entra nulla con il vedere alla tv le favelas di Milano.
E' a questo punto che ti accorgi di non avere più nulla da insegnare. Vuoi solo reimparare daccapo con i ragazzi, ascoltare, ascoltarli. E ringraziarli perchè loro credono che sia stato tu a condurli lì e invece, vecchio come sei, ti ci hanno portato.
(Per conoscere la Casa della Carità vai sul suo sito cliccando il link a fianco pagina)

domenica 7 gennaio 2007

nessuno è senza voce

Ciao!Eccomi con una una poesia a inaugurare il blog.Ne troverete spesso perchè è il modo di scrivere in cui mi ritrovo. La dedico ai miei genitori che non ci sono più.

Mio padre
e mia madre
non hanno mai avuto
la patente.
Sono andati
in bicicletta
in paradiso.
Ci sono arrivati
perchè erano partiti
appena nati