In questo sabato 27 gennaio di compere e di passeggio, Giorno della Memoria, c'è una cinquantina di persone disposta ad ascoltare storie. Fiabe vere nate tra noi più di 60 anni fa nell'inferno che attraversava l'Europa. Nissin era un ragazzo di tredici anni in una famiglia ebrea di Milano. I bombardamenti convinsero il papà artigiano a cercare per loro quattro un luogo in cui rifugiarsi, qualche decina di chilometri verso la campagna. D'improvviso il 9 settembre si scoprirono candidati alla deportazione. Non un perchè che comprendessero, ma niente più scuola e amici, e la sensazione che gli sguardi attorno potesserlo condurli su quei vagoni in partenza per il Brennero. Nell'aria domestica che si era fatta gelida seppur d'estate, decisero di salire su un treno per la Svizzera, che era lì dietro l'angolo e ora assomigliava a un nuovo paradiso. Vi sbarcarono sollevati, con due cose, e andarono dai militari. Qualche domanda e poi via, tornate da dove venite, non c'è motivo d'accoglienza. Via. La sera erano ancora con gli occhi spalancati al buio nella casina fuori Milano. Papà Contente decise di giocare una mano estrema e senza ritorno. Andarono dal segretario comunale del paese, un buon uomo si diceva, e follemente, si rivelarono. Il dottor Bassi non era solo un buon uomo, era un uomo buono. Si alzò e andò di là per un minuto, lasciando sulla scrivania quattro carte di identità vuote. I Contente si guardarono e di getto le compilarono. Arrivarono misteriosamente anche i timbri di validazione. Ora erano sfollati siciliani oltre la linea Gotica, ma non potevano tornare tra i vicini che li conoscevano e li avrebbero subito smascherati. Il dottor Bassi era qualcosa in più che buono, era coraggioso. Lo sapeva, quello che stava facendo poteva far condannare alla deportazione tutti, anche quella sua bimbetta che gli era nata da un anno e che, adesso, il 27 gennaio 2007, ha accompagnato qui Nissin a narrare la sua storia, la loro storia. Il segretario aveva giurisdizione pure sul comune limitrofo e non si fermò. Portò i Contente nella scuola chiusa e li alloggiò in uno stanzone che divenne, per anni che sembrarono secoli, la loro casa. Come facevano a campare? avrebbero potuto chiedersi lì in giro. Il padre di Nissin scappava di tanto in tanto a Milano per vendere in nero, con il contagocce, i gioelli che avevano salvato. Però il grandicello Nissin doveva mostrar di lavorare, e allora rimaneva chiuso sei giorni della settimana nella stanza, invisibile, come se fosse chissà dove a guadagnar la pagnotta. Tutto calcolato, niente mosse false per nessuno, neanche per il dottor Bassi che inventava capatine di ispezione alla scuola per confortarli, portargli qualcosa, dirgli di resistere. Ora il suo nome è tra i Giusti di Israele e le famiglie Contente e Bassi si sono legate con un filo indistruttibile. Perchè quello che tutti credevano fosse un uomo buono, magari coraggioso, in realtà fu un mite, assoluto eroe.
Accanto, adesso, racconta Giancarlo. Un giorno, era bambino, vide il padre uscire con delle persone dalla casa di Saronno, e non tornò più. Uno scampato scorse Pietro su un mucchio di cadaveri, a Gusen. Divenne sapone, fumo, mangime per animali o concime per le fattorie. Non è mai morto, dice Giancarlo, perche non riuscirono mai a farlo iscrivere al partito fascista, lui, ferroviere, pressochè obbligato. Il suo numero tatuato dagli aguzzini, Giancarlo lo ripete sempre a memoria. Davvero , come loro volevano, è rimasto indelebile, a rendere invincibile il vinto, a sconfiggere per sempre i suoi vincitori.
Tocca a Martina e Veronica che hanno messo in un video, tra le mura di casa, il nonno sulla sua quotidiana poltrona a sostenerlo. Ricorda, il vecchio Pompeo, di essere stato un soldato di vent'anni caricato su un treno per conquistare Grecia e Albania. Aveva un fucile a tracolla che non sapeva usare e non lo usò fino a quel settembre, quando li caricarono su un altro treno che ci mise un mese ad approdare in Germania. Campo di concentramento per militari italiani, a spaccarsi la schiena nel fondere il ferro per il disperato sogno hitleriano. Lo liberarono gli americani e lui, afferrata la cioccolata, saltò su un camion fino a casa. Ci arrivò unto nero in faccia, e per africano lo presero i compaesani, che videro risorgere dall'abisso quel ragazzo dei loro. Guerra di chi? ancor oggi si domanda Pompeo, che guarda nelle sue nipoti la determinazione e la tenerezza dei suoi anni pericolosi.
Il ricordo è diverso dalla memoria. Ricordare, nella parola, è fare appello al cuore, sentire l'istante bruciante ed effimero dell'emozione, prima che fatalmente si spenga. La memoria prende il testimone della passione e lo consegna alla ragione e alla coscienza, lo fa diventare stabile in profondità. Fare memoria dunque non è concedere al passato, per una qualche generosità, l'elemosina di non dimenticare. Al contrario la memoria è la radice indispensabile per conoscere chi siamo, per sapere che cosa di forte o di tremendo ci ha fatti così come ci sentiamo. Lo avevano capito duemilacinquecento anni fa i Greci che misero Mnemosine, La Dea Memoria, a proteggere ciò che di più bello l'uomo aveva creato: le Muse e le loro arti.
E anche questo è Memoria.
domenica 28 gennaio 2007
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